Società in house: breve sintesi sulle perplessità della riforma


Dottrina



n. 5 - 2016


Società in house: breve sintesi sulle perplessità della riforma
(Avv. Antonino Ilacqua)


Introduzione

L’evoluzione dell’in house sembra toccare un punto conclusivo nella legge 7 agosto 2015 n. 124 [1]. Assume a suo principio ispiratore la tutela della concorrenza e trova il giusto equilibrio con il principio dell´autonomia, ma sembra ricevere ombra dallo schema di decreto legislativo, che potrebbe alterarne l´attuazione [2]. Difatti, il risultato che dalla legge Madia appare in prospettiva sembra chiaro: la società in house non è cancellata, ma sembra essere un fattore della futura riorganizzazione dell'Amministrazione pubblica, nel quadro della stessa legge Madia e delle esigenze finanziarie di revisione della spesa pubblica [3]. Per questo appare opportuno, tralasciando la ormai risolta questione dei limiti dell'in house [4], verificare se il punto conclusivo rischi o meno di esse compromesso alla luce del decreto di attuazione.

Tra concorrenza e autoproduzione: luci e ombre della riforma e della sua attuazione.


Nel vigente contesto normativo [5], ormai da tempo ha cominciato a registrarsi un indirizzo volto a favorire in prima istanza l’iniziativa privata nella erogazione dei servizi pubblici e, solo in caso di inefficacia dell´iniziativa privata, ad esaltare il ruolo degli enti locali.

Questo sistema, fatto di evoluzione normativa e di giurisprudenza, ha prodotto un punto che sembra conclusivo; la legge 7 agosto 2015 n. 124 (cd. Legge Madia). Quest'ultima, infatti, nel fissare principi e criteri direttivi per il riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale, statuisce la necessità di individuare "..anche per tutti i casi in cui non sussistano i presupposti della concorrenza nel mercato, le modalità di gestione o di conferimento della gestione dei servizi nel rispetto dei principi dell'ordinamento europeo, ivi compresi quelli in materia di auto-produzione, e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di autonomia organizzativa, economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità … " (art. 19). La norma richiama due concetti, specificamente l'auto-produzione e l'autonomia organizzativa, che costituiscono l'essenza dell'in house providing.

La legittimità della scelta in favore dell´autoproduzione dei servizi pubblici (l´in house si pone, infatti, come limite esterno alle regole della concorrenza [6]) trova, infatti, fondamento proprio nel cd. principio di auto-organizzazione amministrativa, che trova a sua volta corrispondenza nel più generale principio comunitario di autonomia istituzionale [7].
È bene premettere che l´organizzazione dei servizi pubblici locali è senz´altro condizionata dalla necessità di adeguarsi al principio di derivazione comunitaria che favorisce l´apertura alla concorrenza del mercato dei servizi. L´obiettivo principale dell´Unione europea è, infatti, rappresentato dalla realizzazione di un mercato comune caratterizzato da «un regime di tipo liberista», teso a favorire «la libera iniziativa privata e basato su regole volte a tutelare la concorrenzialità fra imprese, senza alcuna discriminazione tra settore pubblico e settore privato»[8].

Peraltro, il favor per l´apertura dei mercati alla libera concorrenza non comporta una totale chiusura dell´ordinamento comunitario verso l´intervento diretto in economia da parte degli enti pubblici, soprattutto se questo risulta maggiormente coerente con la tutela del cittadino-utente.

Il diritto comunitario ammette che l´amministrazione pubblica disponga e di un ambito di libertà tale da permetterle di organizzare la propria struttura e la produzione di beni e servizi per la collettività nel modo che essa ritenga meglio rispondente alle necessità della medesima collettività [9].

Del resto, il Trattato, da un lato, non contiene disposizioni che disciplinano o definiscono il servizio pubblico, dall´altro, contiene talune specifiche previsioni che impongono alle istituzioni comunitarie di mantenere un atteggiamento neutrale rispetto ad esso.

Il riferimento è, innanzitutto, all´art. 295 del Trattato istitutivo della Comunità europea: "ll presente trattato lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri". La norma impone, infatti, alla Comunità di mantenere una posizione neutrale circa la natura pubblica o privata delle imprese e gli interventi che le autorità nazionali adottano in relazione all´assetto proprietario delle stesse.

Ulteriore conferma si rinviene nell´art. 86 del richiamato Trattato, laddove è lo stesso trattato ad ammettere deroghe alle generali regole della concorrenza.

L´incidenza e la portata dei servizi di interesse economico generale emerge, ancora, dai testi dell´art. 16 del Trattato UE ( il quale, da un lato, eleva i servizi di interesse economico generale a valore assoluto dell´Unione; dall´altro, privilegia la garanzia dell´adempimento della missione di interesse generale sulla piena applicazione delle norme sulla concorrenza [10]) e dell´art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea.

Sotto un profilo più istituzionale, viene infine in rilievo il rispetto, da parte dell´Unione europea, dell´identità nazionale degli Stati membri consacrato dall´art. 6, par. 3, TUE. Infatti, il rispetto dell´identità nazionale necessariamente comprende il rispetto delle articolazioni territoriali che costituiscono elementi della sovranità statale e in quanto tali compongono tale identità [11].

Pertanto, alla stregua del diritto comunitario, il contrasto tra l´interesse all´apertura dei mercati, da un lato, e i valori sociali e le prerogative delle autonomie sociali dall´altro, può risolversi anche con il sacrificio del primo e, conseguentemente, con la sottrazione al libero mercato della produzione di alcuni beni e servizi laddove la costituzione di monopoli legali che importino la gestione diretta del servizio da parte di imprese pubbliche locali sia giustificata alla luce di ragioni obiettive di tutela dell´interesse generale.

Del resto, anche la Corte di Giustizia ha chiaramente riconosciuto che; "eventuali clausole restrittive della concorrenza…devono essere ammesse se risultano necessarie per consentire lo svolgimento del servizio di interesse generale da parte dell'impresa incaricata" [12].

Nella legge Madia la libertà di autoproduzione dei servizi pubblici locali appare "rinvigorita", finalmente espressa in tutta la sua chiarezza, ma pur sempre limitata dal quadro "costituzionale" comunitario appena descritto, con il quale appare assolutamente coerente.

Unica nota discordante sembra essere, invero, l´articolo 14, comma 6 dello schema di decreto attuativo della stessa legge (recante "Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica"), il quale prevede che «Nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società, qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita». La norma, inserita nell´articolo rubricato "Crisi d'impresa di società a controllo pubblico", finisce con l’avere una funzione squisitamente sanzionatoria: sembra limitare oltremisura l´intervento diretto in economia dei soggetti pubblici e pare eccedere, in parte qua, i criteri della stessa legge delega (in particolare, l´articolo 18).

Quest´ultima, infatti, pone quale fine prioritario dell’emanando decreto legislativo, la tutela e promozione della concorrenza anche attraverso la preventiva definizione, nell´ottica della razionalizzazione e della riduzione, di condizioni e limiti per la costituzione di società o per l’assunzione e il mantenimento di partecipazioni societarie. L’unica misura sanzionatoria prevista dalla legge delega riguarda la mancata attuazione dei citati principi di razionalizzazione e riduzione e si concretizza, principalmente, nella riduzione dei trasferimenti dello Stato alle amministrazioni inottemperanti. Nessun veto è invece immaginato, in capo all'ente controllante, in caso di fallimento di società controllata (salvo eventuali responsabilità degli amministratori delle amministrazioni partecipanti o degli organi di gestione e controllo delle società partecipate), e meno che mai la limitazione quinquennale della libertà di scelta della forma di gestione di determinati servizi, la quale, per la gravità del vincolo imposto, non sembra poter trovare giustificazione nel solo decreto delegato.

Quest´ultimo, infatti, svilendo la funzione stessa dell’in house di salvaguardia di specifici interessi generali, supera la valutazione riservata alla P.A. circa l’eventuale opportunità / inopportunità di ricorrere al mercato e, di fatto, spinge verso una generalizzata privatizzazione dei servizi.

Al riguardo, e più in generale, è significativa anche la posizione assunta dall´ultimo legislatore in merito alla natura giuridica dell´in house.

Dopo un´attenta disamina dei principi cardine del riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, è infatti difficile sfuggire alla considerazione che l´autoproduzione e l´autorganizzazione cui fa riferimento la legge 124/2015 hanno a che fare con un modello organizzatorio che deve fare pienamente i conti con il diritto societario comune ed i suoi principi imperativi.

A dimostrarlo, lo stesso richiamato decreto attuativo della legge Madia (approvato lo scorso 20 gennaio) che in più punti, tutti peraltro significativi, pare confermare la natura privatistica della società in house.

Il decreto, infatti, sottopone le società a partecipazione pubblica alla disciplina del diritto societario comune; «[…] per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e in leggi speciali […]» (art. 1, co. 3); le assoggetta al fallimento; «Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo […]» (art. 14, co. 1); prevede deroghe espresse al codice civile ai fini della realizzazione del controllo analogo (art. 16).

Se la riforma ha definitivamente riconosciuto la figura della società in house, resta ancora qualcosa da dire sulla definizione giuridica. In un ordinamento in cui, come quello italiano, l´istituto societario è saldamente collocato nell´ambito del diritto privato, la società in mano pubblica suscita un importante motivo di discussione; la sua natura giuridica.

Gli orientamenti dottrinali, sul punto, sono essenzialmente due; uno di stampo privatistico, l´altro pubblicistico.

Secondo una prima teoria, varie e, quindi, sistematicamente rilevanti sono le previsioni legislative che denotano la natura per così dire privatistica delle società di enti pubblici [13].

ln primis è stato il codice civile, nel 1942, a prendere chiara posizione in merito alla natura giuridica privatistica della società in mano pubblica; salvo diverse previsioni di legge, le società a partecipazione pubblica sono soggette al medesimo regime giuridico delle altre società (a partecipazione privata). Sono cioè persone giuridiche di diritto privato. Il socio pubblico di controllo esercita, dunque, i poteri privatistici; poteri sì particolarmente pervasivi (come portato del principio maggioritario che contraddistingue il diritto societario [14]), ma nel rispetto dei limiti previsti dal diritto societario comune, e quindi non diversi da quello di qualsiasi altro socio di controllo.

Significativa quanto inequivoca è, sul punto, la Relazione al Codice civile (pag. 44); "…è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggior snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici. La disciplina comune della società per azioni deve pertanto applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici senza eccezioni, in quanto norme speciali non dispongano diversamente".

Nel tempo, vari interventi legislativi hanno coerentemente esplicitato l´appartenenza al diritto privato delle società a partecipazione pubblica.

Alcune parlando espressamente, a fronte della trasformazione da enti pubblici a società di capitali, di «privatizzazione» delle persone giuridiche pubbliche [15].

Altre (art. 3, co. 2 L. n. 218/1990; art. 53, co. 8 L. n. 449/1997; art. 5, co. 26 D.L. n. 269/2003) disciplinando il regime giuridico dei dipendenti delle società frutto della privatizzazione degli enti creditizi pubblici Poste Italiane S.p.A. e Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. ed esplicitando come, con la trasformazione autoritativa in società, tali persone giuridiche abbiano perso la loro originaria natura pubblica (nonostante abbiano continuato a svolgere le medesime attività).

A supporto della visione privatistica, la citata dottrina richiama infine una norma del D.L. spending review, l´art. 4, co. 13, secondo periodo; «Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali».

Si legge nel Dossier del Servizio studi del Senato relativo alla legge richiamata [16]; «La previsione pare voler imprimere un indirizzo (al legislatore e forse più al giudice amministrativo e contabile) di cautela verso un processo di progressiva 'entificazione' pubblica di tali società, valorizzando la forma privata societaria e la disciplina comune dell'attività rispetto alla sostanza pubblica del soggetto e della funzione».

In sostanza, la teoria privatistica ritiene che non vi sia alcuna valida ragione perché l´impresa pubblica non sia assoggettata alla disciplina che il codice civile prevede per l´impresa privata, se entrambe le società operano sullo steso piano.

Differentemente dalla prima, la teoria pubblicistica si fonda, invece, sulla "riduzione" della società a mero schema o strumento organizzatorio[17]. In sintesi, queste società rivestirebbero natura pubblica [18] sulla base del presupposto della pubblicità del soggetto la cui esistenza e destinazione funzionale sono legislativamente predeterminate.

Tale prospettiva, tuttavia, non spiega perché il legislatore, nel prevedere la costituzione di una società pubblica, in mancanza di diverse contrarie indicazioni, non dovrebbe far riferimento alla società come descritta dal codice civile.

Orbene, nella disputa sopra delineata, pare innegabile che il dettato legislativo richiamato costituisca un decisivo passo in vanti verso il rafforzamento della appartenenza al diritto privato delle società a partecipazione pubblica.

Se difatti il Codice civile, pur come si è visto affermando la generale soggezione delle società di capitali a partecipazione pubblica al diritto comune privatistico, non stabilisce poi direttamente alcuna regola interpretativa rispetto a possibili scelte del legislatore speciale in senso pubblicizzante, oggi invece il legislatore offre, in via vincolante, ossia di cosiddetta interpretazione autentica [19], una simile regola; e ciò fa in una direzione decisamente di chiusura rispetto a prospettive pubblicizzanti; le deroghe al diritto comune non possono essere ricostruite in via sistematica o comunque interpretando creativamente previsioni legislative quanto meno equivoche, occorre invece una volontà chiara ed espressa [20]. Nel dubbio, prevale l´indicazione di cui alla Relazione al Codice civile; nella partecipazioni pubbliche, è il pubblico che si piega al privato (ossia al diritto societario comune), e non viceversa.

Simile conclusione ha importanti riflessi con riferimento alla questione che più specificamente ci occupa, cioè I´in house providing.

La giurisprudenza (comunitaria e amministrativa) ha concordemente riconosciuto come l'in house richieda deroghe significative aI diritto societario comune, taIi da rendere Ia società totaImente eterodiretta daII´ente o enti pubbIici di controllo [21].

L´assunto, tuttavia, contrasta con iI principio imperativo (specie dopo Ia riforma societaria deI 2003) della esclusiva competenza (o comunque responsabiIità) gestoria degli amministratori [22] della s.p.a., e rende piuttosto evidente la sostanziale inconciliabilità tra controllo analogo e diritto societario comune.

II problema della loro difficile compatibilità, deI resto, appare confermato daIIo stesso legislatore nazionaIe il quaIe, laddove - come neI caso di ANAS e Difesa Servizi S.p.A. - ha voIuto "conservare" Ia forma societaria, è stato costretto a prevedere coerenti deroghe statutarie aI diritto comune pur di saIvaguardare iI controIIo anaIogo [23].

Quindi, saIvo precise ed espresse scelte legislative derogatorie (ossia salvo i casi di previsione ex lege di deroghe statutarie a carattere pubbIicistico), Ia "permanenza" della società in house nel nostro ordinamento appare assai problematica [24], per non dire irrealizzabile in quanto in irrisolvibile contrasto con l'ordine pubblico societario. Ciò, salvo ad immaginare improbabili rimeditazioni della giurisprudenza comunitaria, che giungano ad ammettere un controllo analogo di fatto, ossia non supportato da specifiche previsioni legislative che consentono invece il (giuridicamente sicuro) asservimento, sul piano teleologico e amministrativo, della società in house al socio pubblico [25].

Antonino Ilacqua

(pubblicato il 2.5.2016)


[1] Sul tema v. M. MACCHIA (a cura di), Le società a partecipazione statale, Napoli, 2015; nonché, in breve, IDEM, Le partecipate statali : società di mercato o semi- amministrazioni ?, Giornale di dir. amm., 2015, 441 ss.


[2] Si allude in particolare all'art. 18 dello schema di decreto Iegislativo, recante il "Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica". Sul punto specifico vedi A. CRISMANI, Crisi e insolvenza delle società partecipate tra bisogni essenziali e finanza locale, in M. PASSALAQUA (a cura di), Il "disordine" dei servizi pubblici locali. Torino 2015, 251 e ss. II punto è trattato neI par. 3.


[3] G. PESCATORE, L'inedito modello dell'in house orizzontale, Enc giur Treccani. Libro dell'anno 2015, 257; C. CONTESSA, La spending reviev ai sensi del d.l. n. 66/2014, Enc giur Treccani. Libro dell'anno 2015, 261; R. DIPACE, Giurisdizione e società pubbliche, Enc giur Treccani. Libro dell'anno 2012, 827; E. SCOTTI, Il finanziamento dei servizi pubblici locali tra vincoli di bilancio, aiuti di Stato e diritti fondamentali, in M.PASSALAQUA (a cura di), Il "disordine" dei servizi pubblici locali .. cit.173 e ss.gg.


[4] Significativa è, in questa prospettiva, Ia parte motiva deIIa sentenza deIIa ConsuIta n. 199/2012, secondo cui I´affidamento diretto aIIa società in house sarebbe consentito « …allorquando l'applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la "speciale missione" dell'ente pubblico, alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della società affidataria [la menzionata posizione, tuttavia, ha cominciato ad avere quaIche cedimento, aImeno nella giurisprudenza comunitaria], del controllo analogo ed, infine, dello svolgimento della parte più importante dell'attività dell'affidatario in favore dell'aggiudicante… ».


[5] Interessante è la disciplina introdotta dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (cd. decreto IiberaIizzazioni), in particoIare Ia noveIIa deI comma 32, Iettera a), secondo "alinea, nonché queIIa di cui all'art. 4 del D.L. 6 IugIio 2012 n. 95 (così detto spending review).


[6] L´in house providing è definizione di ciò che appartiene all'organizzazione pubbIica e che si pone, dunque, come limite esterno alle regole della concorrenza dell'Unione europea che iniziano ad operare ove l'organizzazione stessa, lungi dal trattenere su di sé la produzione di beni o servizi, si rivolge a terzi. Per una disamina di questi aspetti, cfr. R. CAVALLO PERIN, D. CASALINI, op. cit.


[7] Sul principio di autonomia istituzionaIe cfr. L. M. DIEZ PICAZO, Il principio di autonomia istituzionale degli Stati membri dell'Unione europea in Quad. cost. 2004, 865 ss. In base a taIe principio I´appartenenza all'Unione europea non condiziona gIi Stati membri nell'esercizio delle opzioni di riIievo costituzionaIe o istituzionaIe, come Ia sceIta fra centraIismo e decentramento, rispetto alle quali l'Unione europea rimane assolutamente neutrale.


[8] In tal senso si esprime C. IAIONE Le società in house. Contributo al principio di auto- organizzazione e auto-produzione degli enti locali", Napoli, 2012, 121.


[9] In taI senso le ConcIusioni dell'Avvocato generale LA PERGOLA nella causa 360/96, Gemeente Arnhem, Gemeente Rheden c. BFI Holding BV.


[10] In tal senso C. IAIONE opera citata.


[11] Cfr. A. SCRIMALI, Il Parlamento europeo e la promozione delle autonomie locali negli Stati membri dell'Unione europea Rivista italiana di diritto comunitario, 2005, 899 e ss.; M. PEDRAZZI, art. 6 TUE in F. POCAR (a cura di) Commentario breve ai Trattati della Comunità e dell'Unione europea, Padova 2011, 24 e ss., che considerano questa disposizione come un Iimite aII´azione comunitaria e agIi effetti dirompenti che questa può produrre negIi ordinamenti degIi Stati membri.


[12] Sentenza 27 apriIe 1994, causa C-393/92.


[13] F. GOISIS, Contributo allo studio delle società in mano pubblica, MiIano, 2004; G. GUARINO, Enti pubblici strumentali, sistema delle partecipazioni statali, enti regionali, in Scritti di diritto pubblico dell'economia, Milano, 1962, 31; N. IRTI, L'ordine giuridico del mercato, Roma, 2003.


[14] Sul punto si veda, in particolare, GUARINO, op. citata.


[15] Ad esempio; art. 1156, co. 7 ter D.Lgs. n. 267/2000; art. 1, co. 124 L n. 311/2004; D.L. n. 198/1993 ove, in premessa, si parIa di "società per azioni derivanti daIIa privatizzazione degIi enti pubblici economici".


[16] Dossier n. 382 del luglio 2012.


[17] In particoIare M. RENNA, Le società per azioni in mano pubblica. Il caso delle Spa derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici ed aziende autonome dello Stato, Torino, 1997; ROSSI G. Gli enti pubblici, Bologna, 1991 ove si fa riferimento ad una ormai avvenuta neutraIizzazione dell'istituto societario.


[18] G. ROSSI, op. citata; G. GRUNER, Enti pubblici a struttura di S.p.A.: contributo allo studio delle società "legali" in mano pubblica di rilievo nazionale, Torino, 2009.


[19] Cfr. il parere deI Comitato per la Iegislazione del Senato sul disegno di legge n. 5389 «il disegno di legge (agli articoli 3, comma 18; 4, comma 13….) contiene numerose disposizioni formulate in termini di interpretazione autentica di previgenti normative ….» e Servizio Studi della Camera - Osservatorio IegisIativo e parlamentare, Elementi di valutazione sulla qualità del testo e su specificità, omogeneità e limiti di contenuto deI decreto-legge; «Numerose disposizioni sono formulate in termini di interpretazione autentica. Si segnalano le seguenti: articolo 3, comma 18; articolo 4, comma 13, che, facendo riferimento al medesimo articolo, recita: "Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali».


[20] F. GOISIS, Il problema della natura e lucratività delle società in mano pubblica alla luce dei più recenti sviluppi dell'ordinamento nazionale ed europeo, in Dir. Ec., 2013, 41 ss.


[21]Bene sintetizza il concetto la decisione del Consiglio di Stato, ad. Plen., 3 marzo 2008, n. 1 «il consiglio di amministrazione della società [in house] non deve avere rilevanti poteri gestionali e all'ente pubblico controllante deve essere consentito esercitare poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale».


[22] Una clausola statutaria in contrasto con il riparto di competenze legalmente voluto sarebbe, fin dall'origine, nulla perché illegittimamente diretta a derogare aIIa disciplina imperativa del tipo società di capitali, potendo al più essere convertita in un patto parasociale, vincolante, perciò, solo tra i soci originari. Detti patti, però, in quanto meramente obbligatori, non potrebbero essere invocati - come di consueto asserito dai giudici comunitari - per dimostrare il controllo anaIogo.


[23] A titolo esemplificativo, si confronti l'art. 535 del D.Lgs. n. 66/2010, rubricato "Difesa Servizi S.p.A."; «Lo statuto prevede: …c) le modalità per l'esercizio del «controllo analogo» sulla società, nel rispetto dei principi del diritto europeo e della relativa giurisprudenza comunitaria…».


[24] In questo senso A. ROMANO TASSONE, Gli statuti delle società per la gestione "in house" dei pubblici servizi, in Le società a partecipazione pubblica, Torino, 2010; R. CAVALLO-PERIN- D. CASALINI, L'in house; un'impresa dimezzata … op. loc. cit.


[25] In tal senso, F. GOISIS, op. citata.